textsMiracoli di bellezza nello scorrere del tempo

MIRACOLI DI BELLEZZA NELLO SCORRERE DEL TEMPO
di Andrea Lerda

Il 2 novembre 2021 un nuovo vessillo di conquista è stato piantato nel ghiaccio antartico. Il capitano Carlos Mirpuri, alla guida di un aereo Airbus A340 decollato da Cape Town poche ore prima, commenta orgogliosamente le operazioni di atterraggio del primo volo commerciale in Antartide: “This is history! This is a memorable event!”. La bandiera della compagnia charter portoghese HiFly sventola tra il bianco candido della neve e l’azzurro intenso del cielo.
Pochi anni prima, nel settembre del 2016, la nave da crociera Crystal Serenity con 1600 persone a bordo, scortata dalla rompighiaccio RRS Ernest Shackleton, è stata la più grande imbarcazione turistica (dell’ultra luxury brand Crystal Cruise) ad attraversare il Passaggio a Nord-Ovest.

Chissà che cosa direbbe proprio Ernest Shackleton, capitano della spedizione Endurance, che nel 1915 vide la sua imbarcazione letteralmente stritolata dai ghiacci del mare di Weddell, costringendo lui e il suo equipaggio a vagare per ottocento miglia prima di trovare la salvezza a Grytviken, in South Georgia. E chissà cosa penserebbero Vittorio Sella, Roald Amundsen, Umberto Nobile e tutti gli esploratori che solo un centinaio di anni fa, hanno contribuito – grazie alle loro imprese storiche – a creare parte di quell’immaginario sulla neve che ancora oggi esercita il proprio fascino magnetico nell’animo umano.

Il tempo scorre e il configurarsi di nuove condizioni climatiche globali, contribuisce alla creazione di scenari che alterano il modo attraverso il quale viviamo l’esperienza della neve, del ghiaccio e dell’inverno.
Volare in Antartide, navigare attraverso le acque gelide del mare Artico (magari contemplando lo sgretolarsi definitivo delle calotte polari, sorseggiando un drink comodamente seduti sulla confortevole poltrona di una cabina con vista panoramica) sono opportunità inedite di esplorazione prêt-à-porter che ci permettono di essere parte di quell’immaginario in rapida evoluzione.

Da ormai diversi anni, durante il periodo invernale, un nuovo turismo mediorientale porta nella piccola località austriaca di Zell am See circa settantamila turisti provenienti dagli Stati del Golfo. Quando le temperature di quei luoghi possono raggiungere facilmente i cinquanta gradi, Zell am See diventa una delle mete preferite per “migranti temporanei” alla ricerca di paesaggi innevati che seducono e rinfrescano.
Nell’altopiano himalayano del Ladakh, da sempre deserto freddo d’alta quota, i ghiacciai si sono enormemente ridotti; la vita, qui come altrove, dipende dall’acqua che scorre a valle, necessaria all’agricoltura e ai bisogni della popolazione. Per far fronte all’emergenza idrica, l’ingegnere indiano Sonam Wangchu ha messo a punto un sistema fatto di stupa di ghiaccio: veri e propri ghiacciai temporanei prodotti dall’acqua inutilizzata nel periodo invernale.
Dal 2019, a Veduchi, piccola stazione sciistica del Caucaso settentrionale, gli appassionati di sport invernali possono cimentarsi sulla pista da sci realizzata in materiale artificiale più lunga al mondo. Un tappeto plastico di colore verde, lungo 1130 metri, crea un effetto di spaesamento all’interno del nostro modo di vedere e intendere la montagna innevata.
A questo punto un’immagine occupa la mia mente: un esercito di enormi cannoni, soffia senza sosta neve programmata sulle terre antartiche. L’ultimo baluardo d’inverno resiste grazie a uno scenario ricreato artificialmente. È l’ipotesi distopica di un futuro plausibile.

Tralasciando da questo pensiero le implicazioni ecosistemiche per le quali dall’acqua dipende la sopravvivenza del genere umano sulla Terra, siamo in grado di immaginare un futuro senza neve? Quali conseguenze potrebbe generare la sua scomparsa all’interno della nostra sfera emotiva, culturale e sociale? Sono domande che nascono dal progressivo mutare di quel sodalizio tra noi e la neve che dura da secoli. Un legame fatto di metafore, racconti e sfumature emozionali derivate dal rapporto in progress tra natura e cultura, tra naturale e artificiale, che si è evoluto in relazione alle scoperte della tecnica e della scienza e che nel tempo ha preso forma attraverso rappresentazioni artistiche, narrazioni poetiche e composizioni musicali.

Con il loro ballo leggiadro, la loro caduta lenta e ipnotica dal cielo sopra di noi, i fiocchi di neve – quei “miracoli di bellezza” di cui scrive Wilson Bentley a fine Ottocento – potrebbero sembrare un avvenimento magico dal carattere eterno, un dono inspiegabile e senza tempo, che dall’alto giunge fino a noi come omaggio divino. Ma la neve, e i fiocchi di cui essa è composta, sono ontologicamente l’emblema del cambiamento e della metamorfosi, dell’effimero e del momentaneo. Presenza nata per essere mutevole, nella cui trasformazione perpetua risiede il proprio potere vitale e rigenerante.

Secondo la teoria della Snowball Earth, avanzata nel 1992 da Joseph Kirschvink del California Institute of Technology, “un immaginario astronauta che tra i 2,4 e i 2,3 miliardi di anni fa fosse transitato in prossimità del nostro pianeta, nato poco più di due miliardi di anni prima, invece della palla azzurra […] si sarebbe trovato di fronte a una sfera completamente bianca. A trasformare la Terra in una palla di neve sarebbe stata la cosiddetta «glaciazione uroniana o di Makganyene»”.

“Memento homo quia nix es, et in nix reverteris”, mi verrebbe da dire. E sì, perché sempre secondo alcuni scienziati, il nostro pianeta potrebbe essere destinato a tornare una sfera gelata come paradossale conseguenza del surriscaldamento globale prodotto dalla nostra specie.
Il processo di alterazione degli equilibri naturali è ormai pressoché inarrestabile, ma se decidiamo di accogliere questa prospettiva, pur nella constatazione del fastidio che in quanto parassiti abbiamo prodotto al nostro habitat e del destino a cui rischiamo di andare incontro, potrebbe sembrare che stiamo scrivendo un nuovo capitolo nel libro della neve, destinata a riprendersi lo spazio che le abbiamo sottratto.

È all’interno di questo scenario che si muove la narrazione di Over Time. Un racconto intrecciato, nel quale dialogano più mondi allo stesso tempo – artistico, scientifico, storico – e attraverso il quale prende forma una ricognizione aggiornata, mediante l’utilizzo di una lente multifocale, sul topos delle neve.

Con il progetto Over Time, Laura Pugno compie un viaggio metatemporale all’interno dei numerosi significati che, oggi, più che mai, fanno di questo elemento naturale un fatto culturale, ambientale e sociale al tempo stesso. Ultima opera in ordine di tempo su questo soggetto, Over Time esplora le ragioni del nostro legame affettivo e del nostro bisogno di vivere, studiare e ricreare la neve nell’era dell’Antropocene. Il lavoro video, realizzato nell’ambito del bando Italian Council IX (2020), è un viaggio multidirezionale attraverso il tempo; una lettura aperta sulla relazione tra specie umana e natura, con i suoi paradossi e le sue contraddizioni; il racconto di un legame profondo tra materia bianca ed essere umano; l’indagine di un processo storico di cui siamo tutti parte – sia su un piano fisico che emozionale – nel quale più scenari possibili contribuiscono ad alimentare il nostro bisogno della neve.

La narrazione dell’opera, pensata come una proiezione video a tre canali, affronta la complessità del tema mediante un racconto dal forte coinvolgimento emotivo, invitando lo spettatore a osservare la nostra relazione con l’elemento naturale attraverso uno sguardo speculativo e intimo allo stesso tempo.
Concepite come tre finestre che si spalancano contemporaneamente per osservare più scenari legati al mondo della neve, i video si presentano in modo non gerarchico, consentendo a chi guarda di osservare liberamente le immagini e di partecipare all’opera producendo associazioni e riflessioni che attingono dal proprio archivio di ricordi e sensazioni.

Un suono molto simile a un fruscio precede di pochi istanti l’avvio dell’opera. La colonna sonora, creata dalla sound designer Magda Drodz, è la voce narrante che ci accoglie, accompagnandoci lungo tutto lo svolgersi dell’opera. Un alternarsi di sensazioni sonore, melodie, ritmi e consistenze – ora elettroniche ora naturali – caratterizzano, conducono e commentano l’esperienza visiva.
È chiaro fin dall’inizio che ci troviamo immersi all’interno di un archivio di riferimenti che mescolano al tempo stesso presente, passato e futuro.

Nel primo video, ambientato a 2901 metri di altitudine, nei pressi dell’Istituto Angelo Mosso, situato sul Passo dei Salati, nel gruppo del Monte Rosa, Michele Freppaz, nivologo dell’Università degli Studi di Torino, è impegnato in una serie di analisi scientifiche sulla neve. Come accade ogni anno nel periodo invernale, il ricercatore raggiunge questo luogo per registrare e valutare le caratteristiche qualitative e quantitative del manto nevoso.

Nell’osservare il suo modo di procedere, viene meno l’immaginario convenzionale della scienza che osserva e studia il mondo naturale attraverso uno sguardo analitico e distaccato. L’approccio all’indagine e allo studio dello stato di salute della neve è mediato da un forte ricorso alla componente sensoriale ed esperienziale. L’analisi scientifica, che prende forma mediante il ricorso all’osservazione visiva, alla valutazione tattile e sonora, suggerisce una modalità di lettura sinestetica della materia di cui è fatta la neve, presentando la figura dello scienziato sotto una luce inedita. Le gestualità amorevoli che il nivologo riserva alla sua paziente più cara e il senso di grande rispetto che emerge dalle sue azioni, sono infatti l’immagine di una scienza che si apre allo studio del mondo senza dimenticare che esso è materia e spirito al tempo stesso.

La solitudine del ricercatore, immerso in questo “manto di misteriosa bellezza”, al lavoro per comunicare al mondo il proprio messaggio di preoccupazione o forse di speranza, nel richiamare alla mente l’immagine di una moderna Cassandra, lascia trasparire un forte senso di partecipazione fisica ed emotiva.
Il secondo video, ambientato all’interno di un’azienda nei pressi di Cremona, documenta il processo di produzione della neve spray. Le immagini alternano le inquadrature del laboratorio nel quale nasce la formula chimica di questa sostanza, i momenti di valutazione delle sue caratteristiche qualitative, con le fasi del confezionamento. L’occhio della telecamera entra all’interno della macchina alla quale il mondo contemporaneo ha affidato il compito di ricreare artificialmente ricordi, sensazioni ed emozioni legate ai paesaggi innevati. Al fascino che la possibilità di riprodurre la magia del Natale possiede, si mescola il senso di drammaticità per l’ipotesi di un tempo futuro, nel quale tutto ciò che resta dell’inverno è pressurizzato all’interno del metallo di una bomboletta spray. Il plotone di contenitori in alluminio, animati dal movimento dei nastri trasportatori, avanzano composti verso le abitazioni di tutto il mondo, dove una neve in forma di simulacro, rischia di sostituire progressivamente emozioni e sensazioni di una natura autentica.
Nel terzo video, realizzato nei boschi dell’Oasi Zegna, la camera inquadra una presenza umana intenta a camminare all’interno di un paesaggio innevato. L’occhio dello spettatore segue il procede inarrestabile della figura; è un corpo in viaggio, senza una meta certa, apparentemente disinteressato alla sublime bellezza che lo circonda, insensibile all’inebriante forza naturale nella quale è immerso.
Le diverse inquadrature ci permettono di osservare il suo cammino ora da una posizione ravvicinata, ora mediante riprese dall’alto. È solo, in un tempo indefinito, calato all’interno di una dimensione sospesa. Laura Pugno sceglie quest’immagine carica di metafore per portare all’interno dell’opera l’umanità intera, sulle cui spalle grava il peso della propria condizione e delle proprie responsabilità.

L’esperienza simbolica dell’attraversamento apre a una serie di possibili letture: un tempo finale, teatro del commiato con la neve o forse un nuovo tempo, di redenzione, nel quale un bagno bianco tra candidi messaggeri diventa esperienza catartica di rigenerazione e risveglio.

La delicatezza reverenziale con la quale Laura Pugno sviluppa la narrazione dell’opera e il suo modo di raccontare la relazione profonda tra noi umani e la neve, ha il sapore della cura. “La cura del mondo” per citare la filosofa Elena Pulcini, la “cura del Titano che desidera perdutamente tornare a essere uomo”, attraversato dalla “nostalgia sconfinata” della propria limitatezza, fragilità e vulnerabilità”.

La testimonianza di un tempo di trasformazione, della necessità di una nuova coscienza affettiva che rigeneri in noi il senso di empatia con l’universo che ci circonda.
Scegliendo la neve come portavoce di questo messaggio, Laura Pugno alimenta una riflessione ecologica quanto mai urgente. E lo fa ricorrendo al potere della bellezza, quella celata tra le leggi fisiche del creato, nella perfezione inspiegabile della natura, sostanza che nutre il nostro animo e che disseta il nostro corpo, fino a quando l’ultimo fiocco di neve non sarà caduto sulla Terra.

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