OLTRE LA VEDUTA: RINATURARE IL PAESAGGIO
di Francesca Comisso e Luisa Perlo
Il paesaggio, inteso come costruzione culturale, espressione storicamente codificata dell’ambiente naturale, è da sempre al centro della ricerca artistica di Laura Pugno. Nata e cresciuta in un piccolo paese ai piedi delle Alpi biellesi, l’ambiente montano è per lei un contesto familiare e dunque preservato dalle inflessioni esotiche di chi vi ricerca attestazioni di autenticità.
La sua pratica artistica si avvale di linguaggi che spaziano dalla fotografia alla scultura, all’installazione, al disegno, al video, alla pittura, a partire dalla dimensione percettiva ed emozionale generata dall’esperienza del corpo e dal suo agire fisico a contatto con l’ambiente naturale. Nell’ampia varietà di mezzi linguistici in cui si articola la sua ricerca, ognuno scelto per il valore concettuale, oltre che espressivo, della relativa tecnica, emerge infatti un aspetto che potremmo definire performativo, in cui assume un particolare rilievo il corpo nella pienezza delle sue facoltà sensoriali. Questo aspetto introduce una prima, significativa rilettura della nozione di paesaggio, il cui significato coincide con la veduta, il panorama, ovvero con l’atto del vedere, esercitato separando dal continuum del reale ciò che rispecchia specifici valori estetici, simbolici, geografici con i quali, di volta in volta, l’essere umano ha definito l’idea di paesaggio attraverso la propria posizione di centralità e controllo. Scegliendo in molti suoi lavori di sospendere il visivo a favore del tattile, Pugno evoca un’esperienza di prossimità che rinvia alla consapevolezza della profonda interrelazione tra l’umano e l’ambiente, sia esso naturale o artificiale, e tra tutte le manifestazioni, piccole e grandi, del vivente e del non vivente. Il tatto, elemento sensoriale marginale nelle arti visive, ha il vantaggio di poter recuperare il continuum tra tutte le cose del reale che la visione invece separa, e di essere quindi veicolo di connessioni, contatti, scambi, intrecci, promiscuità a partire dalle quali soltanto è possibile imparare ad abitare meglio questo mondo o, come direbbe Donna Haraway, imparare a “stare con il problema”, all’insegna di una pratica di coesistenza e una capacità di vivere responsabile1.
In un’epoca segnata da un allarmante e progressivo dissesto ecologico, da crisi climatiche, disastri ambientali e pandemie globali, l’arte, insieme ad altre discipline e pratiche dell’immaginario, ha la capacità e la responsabilità di generare orizzonti da cui pensare e fare esperienza di una nuova posizione del soggetto umano sulla Terra. In molti suoi lavori Laura Pugno ha iniziato a farlo a partire da un processo di sottrazione, che non va inteso come semplice negazione, come atto d’accusa verso l’umanità dell’Antropocene, ma piuttosto come uno spostamento d’attenzione verso “l’intorno”. In Landscape behind you (2011-2012) l’artista si carica sulle spalle delle lastre nere di Plexiglas e cammina verso la sommità di un’altura, che diventa punto di osservazione. Una volta arrivata, inizia a disegnare, tracciando con sottili segni incisi sulla lastra il paesaggio montano che si trova alle sue spalle e si riflette sulla superficie. La mediazione del riflesso, sulla cui base la mano incide l’immagine del paesaggio, rende il disegno simile a un’impronta, come per la fotografia, un segno indicale, si direbbe in termini semiologici, il cui valore è sempre di attestazione di presenza attraverso l’assenza. In questa condizione duplice l’opera veicola un sentimento ambivalente a cui resta sotteso un ineludibile senso di perdita. Il risultato è un paesaggio inedito, diviso in due parti che si stagliano ai lati di un vuoto centrale generato dallo spazio occupato dal corpo stesso dell’artista. Il corpo fa da ostacolo alla proiezione del riflesso, si intromette con l’unitarietà della visione, non per cancellarla, ma per inscriversi in essa. Il “paesaggio sullo sfondo” diventa al tempo stesso il soggetto e l’oggetto, così come il corpo dell’artista che lo rivela. Si tratta di un ribaltamento di prospettiva, metaforico e letterale, se pensiamo al celebre quadro manifesto del Romanticismo dipinto da Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (1818). Qui la figura umana è “vista da dietro” (la rückenfigur), una figura maschile in contemplazione che si staglia in eroico isolamento dinnanzi alla potenza e alla vastità del paesaggio montano, in un atto di sfida e di dominio che ancora alimenta molta parte dell’immaginario contemporaneo.
Dalla sottrazione alla cancellazione: in alcune opere Pugno interviene sull’immagine attraverso l’abrasione delle superfici, come nella serie di scorci montani di Quel che Annibale non vide (2012), in cui rievoca il passaggio di Annibale e del suo esercito di uomini ed elefanti attraverso le Alpi, recandosi a fotografare il Passo delle Traversette a 2950 metri slm, probabile luogo del leggendario percorso. La cancellazione di porzioni dello stesso scorcio rimanda all’interrogativo su come sia traducibile l’esperienza di un ambiente sconosciuto, per il quale non esistono già codici di rappresentazione, come poteva esserlo la montagna innevata per Annibale, e al tempo stesso essa crea un grado zero, un nuovo campo di possibilità. In altri casi la cancellazione del paesaggio sembra assumere il valore di una sua incorporazione, agita nuovamente attraverso l’esperienza del contatto fisico con l’ambiente: in Moto per luogo (2018), cinque lastre di alluminio con altrettante immagini di contesti montani sono riportate dall’artista negli stessi luoghi, fatte aderire sul terreno innevato e utilizzate come slittini con cui attraversare i paesaggi ritratti. L’esito dell’azione è l’erosione dell’immagine nella parte occupata dal corpo dell’artista. Due modi di dire paesaggio, portando a conseguenze empiriche e a un valore simbolico le intuizioni della fisica che assegnano all’atto di osservare l’effetto di modificare l’oggetto dell’osservazione.
Inevitabilmente, nel suo esplorare il concetto di paesaggio, Pugno è ritornata alla storia dell’arte, in una stagione, come quella rinascimentale, in cui la prospettiva lineare ha tradotto la realtà in misure e proporzioni matematiche. Da opere di Albrecht Dürer e Andrea Mantegna, estrae scorci rocciosi simili a unità plastiche astratte, che assembla in nuove configurazioni, evocando i processi di morfogenesi: con la tecnica calcografica stampa questi insiemi paesistici su formelle di gesso, un materiale di origine minerale che agisce a sua volta sull’immagine corrodendola, come accade con la ruggine sul ferro o la vegetazione sulle rovine di architetture abbandonate. La cancellazione è qui un passaggio nel ritmo vitale e incessante di trasformazione della materia, che porta a una rilettura ecocentrica la nozione spinoziana di natura naturans, una natura come totalità dell’esistente, che è principio del suo stesso essere e divenire.
È in questa prospettiva che si possono forse leggere alcuni suoi lavori recenti in cui l’elemento naturale si manifesta, come in un’azione di autopoiesi: invitata a intervenire nel bosco dell’Oasi Zegna (luogo di una storica e pionieristica impresa di “rinaturazione” voluta dall’industriale biellese cui deve il nome), Laura Pugno sceglie di lavorare su alcuni alberi di abete rosso aggrediti da un insetto parassita, il Bostrico tipografo, che scavando la corteccia recide i canali linfatici della pianta, causandone la morte. Da questa condizione liminale, prossimi alla scomparsa, gli alberi generano il proprio racconto del bosco nella serie Last image (2021), una cronaca che rispecchia il loro punto di vista ottenuta posizionando carta emulsionata nella cavità dei tronchi, trasformata in camera oscura. In collaborazione con la sound artist Magda Drozd, cui ha affidato anche la colonna sonora di Over Time, Pugno registra il suono prodotto dalla grafite nel ripercorrere i complessi e suggestivi intrecci incisi dall’insetto sulla pianta, in Tracks (2021), con un’azione che documenta e accoglie il mutamento2.
La stessa modalità operativa caratterizza un insieme di opere che rispecchiano il confronto ricorrente dell’artista con un elemento specifico del paesaggio naturale, la neve. L’inverno ad alta quota è infatti un contesto nel quale si è spesso addentrata e che diventa, come osserva Pietro Gaglianò, “un concetto un po’ eversivo: l’invisibilità dell’inverno è un’estensione della facoltà immaginativa della quale l’artista si serve (e di cui tutti dovrebbero servirsi) per riflettere sulla propria posizione nel mondo”3. La neve suggella il paesaggio in uno scenario rarefatto e immersivo, che evoca il raccoglimento meditativo di uno spazio mentale e insieme l’allarme suscitato dalla consapevolezza della sua sparizione per effetto del riscaldamento globale e della progressiva e inevitabile fusione dei ghiacciai. Da questo sentimento nascono opere come la serie di carte e tele Omaggio a Wilson Bentley (2018), dedicato al fotografo statunitense che per primo fissò l’immagine dei cristalli di neve, “minuscoli miracoli di bellezza”, come li definiva, influendo sulla formazione dell’immaginario collettivo della neve, al punto da renderla una delle icone del Natale diffusa a tutte le latitudini. Ciò che Pugno tenta invece di catturare è la forma della neve colta nella sua realtà viva ed effimera, ricorrendo di nuovo all’impronta che, una volta colorata con un pigmento a spray, essa lascia sulla superficie della tela su cui viene collocata. In questi lavori si producono oggetti che hanno il valore di reperto, elementi per un’ideale Wunderkammer in cui natura e artificio, anziché sfidarsi nella rispettiva magnificenza di forme, sono l’uno in soccorso dell’altra, “a futura memoria”, come recita il titolo di una serie di splendide sculture che sono in realtà il calco della neve in jesmonite, un gesso ceramico. Frutto di questo esperimento sono forme simili a coralli, a cristalli minerali, ciascuna diversa, che colgono stati temporanei della materia, tra solido e liquido, e che il fenomeno inarrestabile della fusione dei ghiacciai traduce nella consapevolezza della loro vulnerabilità e prossima sparizione. Collocate su superfici cangianti, queste candide impronte della neve assumono riflessi multicolore che le fanno già leggere come reperti di un prossimo futuro.
Alla neve e alla sua bellezza e fragilità è infine dedicato Over Time (2021), progetto che tematizza la nozione di tempo ponendo nel presente segnato dal ritmo lento di un’osservazione attenta e a tratti incantata, una serie di gesti e azioni in cui è già annunciato il futuro prossimo. I tre video proiettati simultaneamente contribuiscono a dilatare lo scorrere del tempo nel qui e ora di uno spazio contemplativo. È possibile così immergersi nella sequenza di azioni svolte da un nivologo scavando una buca in alta quota da cui verificare la “salute” della neve, in una condizione in cui l’osservazione assume un’intonazione affettiva. La stessa dedizione accompagna le procedure di chi verifica la qualità della neve artificiale prodotta in una fabbrica, dove i movimenti umani si affiancano all’ordinato scorrimento delle bombolette sui nastri trasportatori. La circolarità del tempo evocata dal movimento dei rulli e dalla cadenza ipnotica del suono è ancora ribadita dall’incedere senza fine e senza apparente direzione di una persona immersa in un bosco innevato. Sulle sue spalle è legato un busto umano, un carico enigmatico, rivolto indietro, come un vessillo alla rovescia. Questa suggestione a un segno legato all’orgoglio della conquista nasce pensando a un altro lavoro, l’opera d’arte pubblica Primati (2018), realizzata a 2175 metri slm, in un giardino botanico del Monte Bianco. Questo luogo è dedicato a una pianta rara, la Saussurea alpina, il cui nome ricorda lo scienziato ginevrino Horace Bénédict De Saussure, ed è stato creato per proteggere e far conoscere le oltre cento specie di flora alpina autoctona, insieme alle piante giunte da altri continenti o nate da incroci. L’artista ha idealmente arricchito il giardino di sei nuove piante speciali: ciò che le rende uniche è che riescono a crescere sulle cime dell’Himalaya, a oltre 6000 metri di altitudine, dove non si pensava fosse possibile. A ciascuna di esse, Pugno ha dedicato una bandiera che ne reca il nome e l’effigie, disegnata a partire dalle prime immagini disponibili dopo che, nel 2016, per effetto del riscaldamento globale, la fusione dei ghiacci ne ha permesso la crescita a quote sempre più elevate. Alla prima sosta della nuova funivia Skyway, vero prodigio di ingegneria che raggiunge i 3466 metri, le sei bandiere fanno fiorire i vessilli di un giardino da record, ricordandoci al tempo stesso l’ambivalenza di ogni primato. Se il giardino è il luogo in cui da sempre l’essere umano ha esercitato la possibilità di creare mondi, luoghi governati da bellezza, armonia e, potremmo aggiungere, convivenza tra specie diverse, le bandiere issate dall’artista non celebrano traguardi ma sollevano domande, e con esse la necessità di coltivare con ostinazione, resistenza e poesia, nuovi immaginari, nuovi giardini e nuove risposte.